sabato 22 agosto 2009

ENZO MANEGLIA

Qualcosa di stranamente avventu­roso è già nella nascita di questo riminese, avvenuta nientemeno che a Zonguldak nella lontana Turchia, nel 1933. La responsabilità di questo approdo in quella terra dai colori for­ti e dalle passioni violente è tutta del padre, il quale, tecnico minerario, la­vorava in una società franco-turca; quando nacque in Italia la Società Carbonifera sarda, fu invitato, come tutti i tecnici italiani, a tornare in pa­tria (si era nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale), l'infanzia di Enzo Maneglia fu abbastanza mo­vimentata: Castiglione dei Pepoli (Bologna), Vicenza. Roma, dove fece il servizio militare, quindi Urbino dove insegnò all'Istituto Professionale, poi Pesa­re, poi Rimini; di Rimini è la moglie Lydia, anche lei pittrice, anche lei di­sponibile per i colloqui cromatici con la natura alla quale concede il dono di sensibilissime interpretazioni. Oggi Maneglia abita definitivamente a Ri­mini, dove insegna Educazione Tec­nica, dopo aver insegnato Radiotec­nica negli Istituti Professionali, sempre a Rimini ha dato vita, con la moglie e due amici pittori, al "Gruppo 4", un singolare sodalizio di amici artisti, di­versi per tecniche ma tenuti uniti dal­la necessità di "riformare" il mondo nel nome della solidarietà umana.
Lineare la sua carriera. Maneglia è stato disegnatore da sempre.
Le prime vignette le pubblicò sul giornale cagliaritano Pepe e sale, poi, dal 1956, il Travaso di Guasta gli fece spazio sulle sue corrosive colonne, dapprima nella rubrica "II Travaset­to", una specie di anticamera per gli umoristi dotati di talento ma ancora alle prime armi, quindi come collabo­ratore fisso. La promozione avvenne "per meriti speciali", perché Mane­glia aveva ideato la "plastivignetta", una composizione plastica, scenogra­fica, ambientata, in cui cercava di unire il reale all'artificiale. L'idea ebbe successo tanto che meritò al suo autore la medaglia d'oro alle Olim­piadi dell'Umorismo di Parma, nel 1960. Ormai affermato, Maneglia vi­de pubblicate le sue vignette anche su altri periodici come Calandrino, Ber­toldo, Candido, e su quotidiani, sui quali, come lui tiene a sottolineare, ebbe le maggiori soddisfazioni. Pro­prio su un quotidiano L'avvenire d'Italia, cominciò a pubblicare vi­gnette e caricature di personaggi della politica e del mondo dello spettacolo sotto la direzione di Angelo Silvio Ori e in collaborazione con Italo Moscati.
Da circa venti anni Maneglia lavo­ra per Riviera Eco, un settimanale d'informazione turistica che interessa la zona costiera adriatica da Ravenna ad Ancona. Oltre che all'insegna­mento Maneglia si dedica alla grafica pubblicitaria, come designer: illustra riviste d'arte e dépliant turistici, pro­muove lanci pubblicitari per stabili­menti grafici e organizzazioni setto­riali.
Sua prima, antica passione, il dise­gno. In questo campo Maneglia non ha grandi modelli: parte da se stesso, come tutti gli autodidatti, e costrui­sce sul suo metro i suoi personaggi, i quali quindi hanno l'inconfondibile segno del suo modo delicato di guar­dare al mondo.
Le sue mostre personali sono state sempre di grande richiamo: quelle in patria, dove è stato buon profeta, al­tre a Tolentino, a Pescara; di premi ne ha vinti diversi a Lanciano, ad An­cona, a Pescara. Nelle varie mostre personali e collettive è possibile am­mirare il suo segno largo e pulito, più disposto a suggerire situazioni che a realizzarle: c'è in quelle figure molta compostezza, una certa imperturba­bilità tutta inglese; niente clamori ne cattiveria, ma una saggia ammini­strazione di se stesso. La zampata fu­riosa non la trovi mai, soltanto il piz­zico irriguardoso, o a volte lo sberlef­fo, ma frontale, faccia a faccia. Talora - vedi "II critico d'arte", il censore col pennello infilato nell'occhio - il ruggito sembra essersi svegliato, ma è solo apparenza; anche allora da uno scappellotto da professore postsessattontesco, permissivo e bonario, favorendo un sospetto di complicità - che è poi disponibilità a comprende­re - col suo stesso bersaglio. È l'abi­tudine al design o alla grafica pubbli­citaria che smorza alquanto i furori, peraltro non impetuosi, lasciando al disegno tutta la sua carica di self-control. Forse è proprio nel campo della pittura che Maneglia interroga di più i suoi fantasmi inferiori, sca­vando nella miniera delle regioni in­confessate dello spirito, fermandosi lungo la via degli interrogativi e la­sciando così la porta aperta alle ri­creazioni dell'osservatore.
Ma là dove il suo spirito estroso di­venta efficace e corrosivo è nell'uso che fa del polistirolo per riprodurre i personaggi più importanti del nostro tempo. Si tratta di una serie di busti che costituiscono una straordinaria galleria di passioni e di vanità. Qui la disposizione umoristica di Maneglia resta ugualmente estranea ad ogni cattiveria, ma la sua capacità di co­gliere i momenti più individuanti dei nostri miti quotidiani è di una sotti­gliezza impareggiabile. Il materiale fragile e duttile sembra ancora in mo­vimento, e i tagli e gli scarti comuni­cano vitalità ai minimi spazi. Cosic­ché alla fine ti accorgi che Maneglia è riuscito a rubare ai modelli la loro ve­rità e a perfezionarla, ingigantendola senza deformarla: un gioco di mobili­tà e di ombre che prolunga la vita dei personaggi in una sfera d'arte nella
quale non c'è posto più per le mistifi­cazioni e l'uomo è solo con la sua umanità, ridicola o meschina ma sempre vicina alle sue normalità. Si vedano i busti di La Malfa e di Carter in particolare, la cui incidenza nei fatti nazionali e internazionali di que­sti ultimi anni ha costituito uno dei motivi obbligati della cronaca: la se­rietà un po' altezzosa del primo, l'aria disorientata e stupita da improvvisatore dell'altro restano evi­denti all'occhio ma non hanno ne freddezza ne fissità, intenti come so­no essi a continuare un discorso a una platea che li ha già giudicati.
La posizione di Maneglia nei ri­guardi della nostra storia è chiara. Egli non giudica le passioni politiche o le fazioni e neppure fa politica atti­va: dietro il paravento di vetro che lo separa dagli altri, egli vede, osserva, capta lampeggiamenti e vanità; su questo materiale, divenuto inerme e disposto a subire aggressioni, egli opera di coltello con la stessa abilità incisiva con cui lavora il polistirolo. E critica e giudica tutti, in qualunque zona ideologica si trovino. Tuttavia la sua distanza dalle passioni è sol­tanto apparente, che egli sa che l'umorista non deve estraniarsi dai fatti ne distrarsi se vuole che il suo la­voro diventi un apporto concreto per cambiare le cose: anche per suo meri­to, insomma, il mondo può e deve migliorare. L'umorista però deve procedere per certi binari determinati e mai deviati: intanto egli deve fare anche un discorso nuovo, rivolgen­dosi cioè a forme nuove d'arte e non affidandosi soltanto alle vignette, a volte soltanto pretesti per un'evasione ben collaudata ma sempre disim­pegnata, bensì entrando anche nel campo difficile e controverso' dell'umorismo grafico; poi deve usci­re dalle secche del conformismo e delle situazioni abitudinarie per di­ventare, se possibile - ed è possibile - nuovi pretesti umoristici, nuove sol­lecitazioni, rifuggendo dai luoghi co­muni; poi, è importante, deve impa­rare a dire di no al potere, alle piccole mafie e alle violenze camuffate da paternalismi; e deve, se ha forza da vendere, farsi avanti senza lasciarsi inghiottire dall'organizzazione, den­tro la quale non gli sarebbe possibile sfuggire ai compromessi. Un pro­gramma difficile, questo che Mane­glia in sostanza definisce irrinunciabile per l'umorista, e certamente più affidato alle intenzioni, se è vero che persino la satira oggi fa l'occhiolino al potere per sopravvivere. Ma lui non sembra preoccuparsene; sostenu­to da una lunga carriera di umorista e di artista sdegnoso e appartato, che è riuscito a farsi avanti a forza di gomi­tate che volevano essere soltanto la ricerca di un giusto spazio per la pro­pria creatività, egli continua a crede­re nella bontà di un messaggio il cui destinatario è prima lui stesso, atten­to e serio, dall'intuito pieno di cipi­glio ma ben sperimentato, e poi l'uo­mo, l'altro uomo, che percorre le sue stesse strade e troppe volte smarrisce la via della saggezza.

(Luigi Morgione)



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